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Operaismo di ieri e di oggi. di Sergio Bologna

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Ultimo aggiornamento Venerdì 16 Gennaio 2015 12:15 Scritto da Sandro Venerdì 16 Gennaio 2015 12:13

Precisazioni sull’operaismo di ieri e di oggi

Intervista a Sergio Bologna

Nel Suo articolo “Come il patrimonio teorico ecc.” Lei non parla di Toni Negri e del contributo da lui portato all’analisi della società postfordista. Una dimenticanza o cosa?

È vero, non ne parlo. La ragione a me pare assai chiara, spero di riuscire a spiegarla. Negri è uno dei fondatori dell’operaismo ma sin dai tempi di “Classe Operaia” il suo lavoro teorico ha avuto una dimensione, un’ampiezza, che travalicava i confini dell’operaismo. Se poi teniamo conto di tutta la sua produzione politico-filosofica dalla metà degli Anni ’70 ad oggi è evidente che essa supera largamente per ricchezza e complessità il terreno occupato dall’operaismo. Non so se riusciamo a parlare di un “negrismo”, certamente possiamo parlare di un sistema di pensiero di Antonio Negri, che in parte arricchisce l’operaismo in parte se ne allontana, perché segue un percorso solitario, un progetto che è soltanto suo. Sono due sistemi di pensiero differenti, incrociati per un certo verso ma totalmente indipendenti. La stessa cosa si può dire per la produzione teorica di altri compagni, Christian Marazzi, per esempio, o Paolo Virno. Mi viene da dire che sia loro che Negri non hanno avuto bisogno dell’operaismo per produrre pensiero, mentre, per quanto riguarda me, l’operaismo rappresenta un punto di riferimento indispensabile. Starei per dire che per loro l’operaismo è stata un’esperienza umana fondamentale ma dal punto di vista dello stimolo del pensiero ha avuto un peso minore, se non addirittura secondario, rispetto ad altri stimoli. È vero.

Sin dalla metà degli Anni ’70 Toni Negri ha ragionato come se la società fordista fosse un retaggio del passato ed è andato alla ricerca di un soggetto sociale o di una composizione sociale che potesse sostituire, sublimare e inglobare l’operaio massa. Ma lo ha fatto partendo dall’alto, non dal basso, dalla sua concezione dello stato, dal governo complessivo del capitale, con un approccio fortemente leninista. Il suo problema non è mai stato il comportamento operaio ma la distruzione dell’apparato di potere capitalistico, in lui la classe operaia non è un universo sfaccettato e pieno di contraddizioni ma un potenziale esercito compatto. Non è un caso che fu lui a scegliere il titolo “Operai e stato” per il primo volume della collana “Materiali marxisti”. Un titolo azzeccato, un titolo che è un programma, mentre il titolo del secondo volume “Crisi e organizzazione operaia” non corrisponde per niente ai contenuti, è un titolo sbagliato. Il percorso solitario che Toni Negri ha intrapreso sin dall’inizio dell’avventura operaista si è accentuato dopo il suo arresto e il protagonismo mediatico impostogli dai suoi persecutori. A quel punto il livello dello scontro è apparso troppo alto perché valesse la pena di ricorrere ancora all’armamentario operaista. La sua produzione teorica quindi si è allargata a dismisura, da Spinoza a Leopardi, fino a toccare i livelli di “Impero”, di “Moltitudine”, separandosi completamente dalla dimensione dell’operaismo, che è rimasto un “prodotto di nicchia” destinato a pochi amatori mentre la produzione di Toni Negri diventava un dispositivo globalizzato. Per me invece l’operaismo è qualcosa da cui non riesco a liberarmi, fa parte della mia natura ed è a misura delle mie modeste capacità intellettuali. Non ho ambizioni superiori, forse perché non ho mai osato pensare la rivoluzione comunista, la distruzione dello stato borghese mi è apparsa sempre una prospettiva così lontana da impedirmi di “pensarla”. Anzi, dirò di più, io non ho mai condiviso l’idea di tanti compagni di essere i “veri comunisti”, quelli che hanno raccolto la bandiera del comunismo lasciata cadere dai partiti riformisti e oggi neoliberali. La mia adesione completa, convinta, all’operaismo derivava dal fatto che pensavo di ritrovarmi in mezzo a persone che consideravano il comunismo un’esperienza storica conclusa e che dinanzi a noi si apriva una strada ignota, tutta da scoprire, che doveva portare alla liberazione dalle due dominazioni: quella capitalista e quella del cosiddetto “socialismo realizzato”. A mio avviso solo dopo il ’77 Toni Negri si allontana anche lui consapevolmente dalla tradizione comunista e affronta l’ignoto del postfordismo. Lo fa anche nel momento in cui si allontana dalla prospettiva leninista-potoppina e in cui prende le distanze dalla lotta armata (che, diciamolo, è stata la più eclatante versione moderna del leninismo). Io ho continuato a studiare il comunismo da storico e mi sono trovato a dover metterne in risalto meriti – per esempio nel saggio ”Nazismo e classe operaia” – che gli stessi partiti comunisti del dopoguerra avevano voluto dimenticare e seppellire.

Ma allora che significato ha avuto per Lei l’esperienza di “Potere Operaio”? Voi siete stati insieme non solo in “Classe Operaia” e ne “La classe” ma anche in “Potere Operaio”, anzi Lei ne è stato uno dei fondatori.

Non ho mai piacere di parlarne. Perché? Perché – sembrerà impossibile – quei 12/13 mesi passati in “Potere Operaio” non mi hanno lasciato dentro niente. Mi spiace dirlo, perché so quanto quell’esperienza ha significato per tanti compagni a cui sono ancora fortemente legato dal punto di vista umano e non solo. Fedeli a quella esperienza, hanno sopportato senza battere ciglio anni di galera e ancora oggi non riescono a distaccarsene, rimane l’esperienza fondamentale della loro vita. Io ho vissuto quei mesi in maniera schizofrenica, con la sensazione – continuamente ricacciata nel profondo dell’animo – che stessi tradendo quella diffidenza verso il leninismo che il mio spirito libertario considerava una componente essenziale della “nuova” militanza. Anche se in “Potere Operaio” ho trovato parti della mia vita, soprattutto dal lato affettivo, sia dal punto di vista intellettuale che dal punto di vista politico, il bilancio dell’esperienza in quella organizzazione per me è zero. Sicché quando si dice che me ne sono andato perché ero contrario all’uso della violenza non è vero, non è vero. Potevo essere contrario al modo in cui si pensava di esercitarla o ai personaggi su cui si pensava di poter contare (ho avuto facile ragione, ahimè). Ma la verità è che me ne sono andato perché “Potere Operaio” era la riproduzione di un modello bolscevico fuori tempo, analogo a quello di tutti i gruppi extraparlamentari, non aveva quella bella “diversità” che è propria dell’operaismo, anzi ne era la negazione. Ma forse sono io che non l’ho capito. Sta di fatto che solo quando me ne sono uscito ho ricominciato un certo lavoro teorico, ho ricominciato a respirare, a pensare politicamente, a rivivere dentro il movimento.

Quindi Lei è convinto di essere il “vero” interprete dell’operaismo? La versione “autentica” dell’operaismo sarebbe la Sua?

Siamo fuori strada, amico mio. Io racconto la mia esperienza, offro una testimonianza con lo stile ed i parametri del mio mestiere, quello dello storico. Ma se domani qualcuno mi dicesse che la mia versione è una deformazione della realtà, una leggenda metropolitana inventata dal mio egocentrismo, e che ben poco hanno a che fare i miei scritti con la “vera” tradizione operaista, non farei una piega. Il termine “operaismo” così come il termine “postfordismo” sono delle convenzioni, si possono accettare o rifiutare. Quello che conta, in politica, non è la storia del pensiero ma la storia del movimento reale. Possono dirmi che io con l’operaismo c’entro come i cavoli a merenda, affari loro, a me basta che quando parlo di operaio massa ci sia un riscontro effettivo, anzi, ci sia una potenza sociale che incute rispetto al potere costituito, e che quando parlo di lavoratore autonomo ci sia un effettivo movimento associativo, di autotutela, di resistenza, di mutualismo, dei freelance. “Ma pensano alla rivoluzione, questi freelance?” domanda Pierino. “Vàglielo a chiedere, ragazzo. Vài, vài, alzare il culo dalla sedia fa sempre bene”.

 

Il sindacato si fa imprenditore!. L'Accordo della Vergogna.

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Ultimo aggiornamento Lunedì 12 Gennaio 2015 10:46 Scritto da Sandro Giovedì 08 Gennaio 2015 16:02

Una scomoda presenza nel Mondo del Lavoro.

Il sindacato si fa imprenditore!

Prima d’iniziare a fare delle considerazioni tecno/politico/sindacale, diamo un nostro giudizio di come viene interpretiamo e percepiamo l’accordo del “Testo Unico sulla Rappresentanza” del 10 gennaio 2014.

Possiamo scrivere che l’accordo non è un Decreto Legge ma una intesa, una “concertazione” tra più soggetti che ci vede oggi come ieri in netto contrasto.

Il testo firmato da Confindustria (associazione padronale) con cgil, cisl, uil (in rappresentanza dei lavoratori) ed altre associazioni sindacali accodatesi in seguito, come da risposta 10 aprile 2014, lasciarebbe poche speranze ad altri soggetti sindacali che si vedrebbero eliminati presupposti primari quali la sottoscrizione dei contratti, sia di secondo livello che dei CCNL, (un cedimento inutile) escludendo così quelle realtà raprresentative di minoranze per trarne indebiti vantaggi.

La misurazione o la certificazione della Rappresentatività nei luoghi di lavoro non sfugge al giudizio principe della limitazione della democrazione sostanziale nei luoghi di lavoro per il quale ci battiamo da anni!

Il tentativo di esclusione delle minoranze sindacali non può divenire realtà.

Le nuove regole del mercato del Lavoro chiedono a tutti noi una presenza capillare ed uno sforzo ulteriore per ribaltare il profilarsi di un attacco al salariato, alla disoccupazione e al precarito che le nuove regole del lavoro avranno come conseguenza:

1. condizioni i salariali al limite della povertà;

2. nuovi accupati con un diverso regime giuridico a loro difesa;

3. non occupati che non avranno possibilità accupazionali;

4. precariato in crescita crescente;

5. un sociale sotto attacco dalla casa alla sanità;

Queste sono le tutele crescenti pensate da una classe dirigente impregnata da corrotti e collusi.

Il testo unico sulla Rappresentanza è dentro il progetto del Jobs Act .

I quattro capisaldi dell’accordo sono la misura della contrazione rappresentativa delle minoranze a favore dei soliti sindacati, mai realmente contrapposti allo strapotere padronale, e dei vari governi che si sono succeduti nel tempo.

Parte Prima.

· Misura e certificazione della Rappresentanza, controllori controllati si scambiano i ruoli;

· Misura del contributo associativo;

· Secondo l’intesa dovrebbero esser valide solo le deleghe d’adesione degli aderenti all’accordo, già previsto nei CCNL, ma cosa già smentita da giusrisprudenza costante;

· L’INPS elaborerà i dati associativi aggregandoli ai CCNL delle singole categorie mettendo così un ente pubblico al servizio del privato;

· I dati aggregati saranno trasmessi al CNEL e ritrasmessi alla Commissione elettorale dei Garanti;

· Il comitato dei garanti ad elezione rsu avvenuta li ritrasmetterà al CNEL;

· I dati associativi comunicati al CNEL determineranno la soglia del 5% degli aventi dirito alle RSU;

· Le RSU saranno riconosciute al raggiungimento del 50% + 1 degli aventi diritto. Nulla di nuovo.

 

Parte Seconda.

Regolamento in azienda.

Le parti contraenti determineranno una sola forma di rappresentanza:

a) Le rsu dovranno garantire l’invarianza dei costi aziendali;

b) Le rsa in scadenza potranno essere costituite dalle rsu per decisione delle O.S. maggioritarie con totale dipendenza dalle O.S. come oggi;

c) Il tutto trova applicazione nel’art. 2112 del Cod. Civ., le rsu resteranno in carica fino al rinnovo della nuova rsu. (Trasferimento d’azienda. Il rapporto di lavoro contunua con l’aquirente rimando in essere le condizioni precedenti, nel caso in esame anche le rsu);

d) Avranno diritto i soggetti firmatari dei precedenti patti: del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e del presente accordo. Tanti paletti e tante limitazioni per blindare un patto tra galantuomini;

e) Una garanzia tripartita. Il numero minimo delle rsu nelle unità pruduttive sarà di TRE per duecento dipendenti; un bel passo indietro rispetto al passato che garantisce una maggiore sicurezza per i contraenti del patto;

f) Sono salvi i diritti, come riportato nella legge 300/1970, art. 20, con una variabile:

3 delle dieci ore annue di assemblee sindacali saranno esigibili dalle O.S. e 7 destinate ai lavoratrori mentre in passato tutte e 10 le ore erano ad uso dei lavoratori;

g) La rsu non può cambiare casacca, pena la decadenza. Sono più avanti del parlamento;

h) Potranno partecipare alle RSU, “solo le organizzazioni che accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo, dell’acordo del 28 giugno 2011 e del protocollo del 31 maggio 2013”.

Il varo di una commissione d’arbitrato costituita dagli stessi firmatari, mi pare anche singolare, come quella di un fondo cassa di apposita costituzione.

Il tutto per riconfermare che:

Padroni e Sindacati confederali non chiedono null’altro che soltando una limitazione della democrazia nei lughi di lavoro, un ambito protetto in cui il diritto alla tutela è un fatto meramente discrezionale deciso dai soggetti firmatari di questo accordo come dei precedenti.

Quanto qui descritto sintenticamente non poteva essere un incidente di percorso ma altresì propedeutico a cio che il governo Renzi si accingeva a varare allo scadere dell’anno 2014 con il Jobs Act seguito dalle tiepide risposte dai firmatari dell’accordo, quello della vergogna.

Milano 08.01.2015

La segreteria

USI – C.T. & S. (MI)

   

Analisi. "La tutela" del licenziamento Jobs Act

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Ultimo aggiornamento Giovedì 08 Gennaio 2015 11:09 Scritto da Sandro Mercoledì 07 Gennaio 2015 09:39

La tutela del licenziamento Jobs Act

In attuazione della Legge 10.12.2014 n. 183, il Governo dovrà emanare un Decreto Legislativo che disciplini la tutela del rapporto di lavoro subordinato pubblico e privato a tempo indeterminato.

Intanto, in previsione di ciò, è stato reso noto lo schema preliminare del D.Lgs. che consta di 12 articoli.

Riguardo la comparazione della nuova procedura di licenziamento e delle sue tutele in rapporto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (d’ora in poi St. lav. cioè della legge 20.05.1970 n. 300 come modificato dalla riforma Fornero), ci interessa esaminare pochi ma complessi articoli.

Vorrei precisare che la normativa è di difficile lettura e che, quindi, le deduzioni qui riportate potrebbero subire modifiche interpretative appena si formerà una nuova giurisprudenza in materia.

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In primis giova sapere che la nuova tutela dal licenziamento non si applicherà a chi ha già un contratto di lavoro ma solo a chi verrà assunto successivamente all’entrata in vigore del decreto, tranne in un caso: i datori di lavoro che impegnano meno di 16 dipendenti possono far applicare la nuova tutela a tutti i propri dipendenti se, successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. in costruzione, assumeranno nuovi lavoratori fino a raggiungere il fatidico numero complessivo di 16 impiegati, secondo quanto previsto dai commi 8 e 9 dell’art. 18.

La dicitura (nomen iuris) utilizzata dal Governo per intitolare il nuovo D.Lgs. è: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.

Sembrerebbe che la nuova normativa predisponga delle tutele via via sempre più pregnanti (crescenti) a favore dei lavoratori.

Non è così!

La tutela è peggiorativa rispetto a quella apprestata dall’art. 18 perciò potrebbe essere reintitolata “a tutele decrescenti”.

Comunque se il Governo ritiene di premiare le aziende che assumono lavoratori fino a raggiungere la soglia dei 16 dipendenti, significa che licenziare sarà più facile rispetto al regime dell’art. 18.

Anche il Governo lo sa bene!

Non solo. Chi impedirà al datore una volta raggiunta la soglia di 16 dipendenti e aver ottenuto l’applicazione della nuova procedura, di liberarsi dei lavoratori neoassunti?

La norma tace sul punto ma la risposta è ovvia.

La presenza di un doppio binario nella tutela dei lavoratori licenziati, profuma di incostituzionalità.

E’ vero che i lavoratori tutelati dall’art. 18 andranno scemando nel tempo, ma il doppio binario durerà per decenni a meno che il Governo non abbia in mente di procedere gradualmente, appena raggiunta la calma sociale, ed attraverso successivi decreti legislativi o decreti legge, di applicare la nuova tutela a sempre più settori lavorativi fino a ricomprenderli tutti.

A prescindere dalla strategia governativa che non potrei conoscere, intendo spiegare la complessa legislazione jobactiana procedendo per una migliore esposizione, per tipologie:

Licenziamento discriminatorio

  • L’art. 18 dispone la nullità del licenziamento per discriminazione determinato per motivi di credo politico, di fede religiosa, per l’appartenenza ad un sindacato o ad un’associazione e per la partecipazione ad esse (art. 4, legge 15.07.1966 n. 604) oltre che effettuato in concomitanza col matrimonio (art. 35 codice pari opportunità del D.Lgs. 11.04.2006 n. 198), durante la gravidanza e la maternità o la paternità di cui all’art. 52 del D.Lgs. 26.03.2001 n. 151 oltre che per motivi illeciti del contratto ex art. 1345 C.C.. In questo caso il giudice annulla il licenziamento a prescindere dal numero di impiegati assunti (tanto è vero che viene tutelato anche il dirigente) e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il pagamento di un’indennità (chiamata erroneamente e contraddittoriamente “risarcimento del danno”) pari all’ultima retribuzione di fatto percepita moltiplicata per il tempo che il lavoratore ha trascorso senza lavorare. Anche se è rimasto disoccupato per meno di 5 mesi, è comunque dovuta un’indennità lorda di 5 mensilità. Questa tutela definita “reale” si applica anche in caso di licenziamento intimato verbalmente. Decade tutta la tutela se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore ovvero decade dal diritto di reintegrazione se chiede il pagamento di un’indennità di rinuncia che è pari a 15 mensilità nette.

  • Anche il nuovo D.Lgs. tutelerà il licenziamento discriminatorio, come prima precisato, oltre agli altri casi di nullità di legge (quindi anche i casi di cui all’art. 1345) e seguirà perfettamente la procedura dell’art. 18. Anche se il D.Lgs. non prevede che tale tutela si applichi al dirigente, è probabile che la giurisprudenza provvederà ad integrare questa lacuna, sempre che risulti tale e che non sia invece voluta.

    Comunque la discriminazione è un abominio per il nostro ordinamento democratico per cui penso che non potrà essere in alcun modo tollerata neppure se attuata sui dirigenti.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa

  • Dobbiamo premettere, per ricordare ai lettori la differenza tra i tre diversi istituti, che per giustificato motivo oggettivo si intende la ragione inerente l’attività produttiva dell’azienda, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Ciò riguarda i motivi legati all’esistenza e all’unità dell’azienda soprattutto in ragione della produzione (es. soppressione di un reparto o un ramo dell’azienda) e della crisi aziendale e alla sua strutturazione organizzativa (es. razionalizzazione dei sistemi o delle fasi produttive).

Il licenziamento per cause oggettive è attuato quando non è possibile riutilizzare il dipendente in altre mansioni (V. repechage su www.aadi.it/BDI). La fonte legislativa è rinvenibile agli artt. 3 e 7, co. 1 della legge n. 604/1966. Le motivazioni soggettive sono invece legate al comportamento del lavoratore è possono essere ascritte alle regole definite dal Codice disciplinare. La giusta causa (art. 2119 C.C.) è invece un motivo che determina la totale perdita di fiducia da parte del datore per comportamento ingiustificabile del lavoratore e che costringe il datore al c.d. licenziamento ad nutum cioè in tronco o senza preavviso. Non deve essere necessariamente riconducibile al Codice Disciplinare ma può attenere condotte socialmente riprovevoli (Cass., sez. lav., 13 settembre 2005, n. 1830 - anche perché un codice non sempre può prevedere tutti i possibili atti umani). Premesso ciò, bisogna evidenziare che l’art. 18, al comma 4 e ss. disciplina esclusivamente il licenziamento dettato da motivi soggettivi e da giusta causa ma non quello determinato da motivi oggettivi che regola al comma 7. Nelle situazioni regolate dall’art. 18, il giudice annulla il licenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro quando è accertato che il fatto posto a ragione del licenziamento, che sia una crisi aziendale (oggettivo) o un’infrazione disciplinare (soggettivo) o una giusta causa (furto), è falso o inesistente o inconsistente, almeno nei contenuti descritti dalla parte datoriale ed anche quando non viene rispettato il principio di proporzionalità della sanzione (quando si punisce con il licenziamento un’infrazione che, invece, doveva essere punita con una sanzione conservativa del posto di lavoro come può essere per esempio la sospensione dal servizio). In aggiunta alla tutela reale è prevista quella obbligatoria sempre calcolata sulla retribuzione mensile moltiplicata per il tempo di disoccupazione ma non oltre le 12 mensilità.

Il datore deve anche pagare, a parte, i contributi previdenziali e assistenziali maturati nel periodo di disoccupazione.

Anche in questo caso il lavoratore può optare per il pagamento dell’indennità di rinuncia. Nel caso in cui il fatto posto a ragione del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) risulta accertato nei termini espressi dal datore ma che per altri motivi non sia possibile acclarare il giustificato motivo o la giusta causa ovvero non ne ricorrono gli estremi nella loro puntuale definizione, il giudice dichiara comunque efficace il licenziamento e condanna il datore all’indennità in parola tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

Se il licenziamento è invece dichiarato dal giudice inefficace perché il lavoratore ha chiesto nei termini le motivazioni del proprio licenziamento e il datore non lo ha reso per iscritto entro 7 giorni (co. 2, art. 2, legge 15.07.1966 n. 604), il giudice deve comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro (e, quindi, il licenziamento) ma l’indennità del danno è commisurata tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità a meno che il lavoratore non formuli in ricorso, vittoriosamente, anche un difetto di motivazione nel merito del licenziamento. In questo caso il petitum del ricorso porta l’oggetto del licenziamento alla prima tutela prevista dall’art. 18, quindi se il fatto addebitato è insussistente, oltre all’indennità pari al massimo a 12 mensilità, viene ordinata la reintegrazione, salva la rinuncia indennizzata richiesta dal lavoratore etro 30 giorni. Ma se il fatto risulta acclarato nonostante non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il licenziamento verrà confermato e l’indennità maggiorata da 12 a 24 mensilità.

  • La nuova procedura di licenziamento prevede sempre la tutela dei soli casi di giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il giudice annulla il licenziamento solo se il fatto contestato ovvero posto a ragione del licenziamento risulterà, direttamente e senza dubbio, insussistente. La formula adottata dal Governo non permette di interpretare la locuzione impiegata in maniera diversa dalla stretta osservanza di un impianto probatorio difensivo processuale che sia ictu oculi, diretto e non indiretto nel senso che la falsità del fatto cioè la diversa ricostruzione dell’evento addebitabile al lavoratore dovrà trovare una incontrovertibile logica. Quanto richiesto dal legislatore affinché il giudice annulli il licenziamento con effetti reintegrativi pone non pochi timori sulla reale possibilità di subornare i testi. La prova per testi, per questa tipologia di licenziamento, assume primaria importanza perché permette di ricostruire i fatti secondo la visione dei colleghi (e non solo) anziché delle parti. Quanto testimonieranno i colleghi riverbererà sulla valutazione che opererà il giudice sui fatti, per decidere se quanto contestato è vero o è falso, è avvenuto oppure non si è realizzato per nulla o quantomeno non nelle circostanze o nei modi descritti dal datore di lavoro. Nel caso in cui il fatto risulterà insussistente ovvero anche insufficiente o attenuato rispetto alla gravità descritta, oltre all’ordine di reintegrazione, il datore sarà obbligato ad indennizzare la vittima versandogli una somma pari alla retribuzione mensile per tutto il periodo di disoccupazione non superiore a 12 mensilità oltre i contributi. Anche in questo caso è possibile optare per l’indennità di rinuncia. La critica ascrivibile alla norma (art. 3, co. 2) riguarda l’applicazione della tutela reale al solo caso di insussistenza del fatto e non anche ai vizi della procedura disciplinare. La procedura disciplinare è costituita anche da una serie di termini perentori posti a tutela dei principi di tempestività, celerità, certezza del diritto e legalità. Principi che potranno essere tranquillamente violati dal datore di lavoro se la finalità del licenziamento sarà quella di liberarsi definitivamente del lavoratore scomodo. Non solo.

Se il datore dovesse violare il diritto di difesa del lavoratore incolpato, per esempio rifiutandosi di audirlo prima di comminare la sanzione disciplinare così come prescrive il co. 2, art. 7 della legge n. 300/1970, il licenziamento risulterebbe comunque efficace.

Il diritto di difesa è fondamentale per garantire il contraddittorio e il rispetto non solo dei diritti del lavoratore ma soprattutto dell’uomo in quanto tale. – Cass., sez. lav., SS.UU. n. 3965/1994; Corte d’Appello Milano, 4 giugno 2002 (Pres. Ruiz, Est. De Angelis, in D&L 2002, 721, con nota di Giuseppe Bulgarini d’Elci, Sul diritto di difesa del lavoratore sottoposto ad azione disciplinare). Anche Cassazione lavoro 26 ottobre 2010, n. 21899 sostiene che: “Il datore di lavoro ha l’obbligo di sentire a difesa il lavoratore prima di qualsiasi intervento disciplinare nei suoi confronti, licenziamento compreso”. – Cass., sez. lav., 2 maggio 2005, n. 9066, Pres. Sciarelli, Est. Stile, in Orient. Giur. Lav. 2005, 288; Cass., sez. lav., 13 gennaio 2005, n. 488, Pres. Mercurio, Est. Miani Canevari, in Orient. Giur. Lav. 2005, 81, e in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Domenico Carlomagno, Sulle modalità di esercizio del diritto di difesa del lavoratore nel procedimento disciplinare, 134; Cass., sez. lav., 28 agosto 2000, n. 11279, pres. Mercurio, in Orient. giur. lav. 2000, 708; È illegittima, per mancato rispetto della garanzia procedimentale di cui all’art. 7, 2° comma, St. Lav., la sanzione disciplinare comminata in mancanza dell’audizione orale richiesta dal lavoratore – Pret. Firenze 10 dicembre 1998, est. Varriale, in D&L 1999, 603, n. Pavone, Sanzione disciplinare: vizi di forma e domanda di restituzione delle somme trattenute; Cass., sez. lav., 28 marzo 1996, n. 2791, Pres. Lanni, Est. Trezza, in D&L 1996, 981. In senso conforme, v. Pret. Milano, sez. Rho, 25 marzo 1998, Est. Ferrari da Passano, in D&L 1998, 1094; Il datore di lavoro deve, a pena di nullità della successiva sanzione, consentire l’audizione orale richiesta dal lavoratore con assistenza da parte di sindacalista di sua scelta – Pret. Milano 15 ottobre 1994, Est. De Angelis, in D&L 1995, 79. Sul punto è conforme anche Corte di Cassazione, sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21066; Cass., sez. lav., 23 febbraio 2002, n. 4187; 16 settembre 2000, n. 12268 e 28 agosto 2000, n. 11279.

Non vi è dubbio, quindi, che la norma rivoluzioni profondamente il ius receptum, sconvolgendo una logica indefettibile. L’esercizio del diritto di difesa trova ragione direttamente nella Carta Costituzionale (co. 2 dell’art. 24 - La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento).

La Corte costituzionale è già frequentemente intervenuta nel passato per dichiarare incostituzionali norme di legge (es. sent. n. 505/1995 sull’art. 56, secondo comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 - Ordinamento della professione di giornalista). Dall’esame di numerose normative fondamentali del nostro sistema giudiziario, come per esempio dell’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo relativo ai ricorsi (da ultimo il D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199), degli artt. 111 e 112 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico degli impiegati civili dello Stato) può desumersi che trovano diretta e necessaria applicazione i principi relativi al diritto dell’interessato di conoscere gli atti che lo riguardano per esercitare pienamente il diritto di difesa.

Il diritto di difesa è talmente importante da sovrastare quello della riservatezza, nei limiti che conosciamo: “Sono note le difficoltà di definire con una regola generale ed in maniera esaustiva l’ambito applicativo della privacy nei casi in cui si debba procedere ad individuare un equo bilanciamento tra tale diritto ed altro diritto anche esso a copertura costituzionale. Sul punto è stata rimarcata nella materia in esame l’esigenza che si pervenga ad un esito variabile così come patrocinato da una autorevole opinione dottrinale, che nei casi di contrapposizione di diritti garantiti dalla Carta Costituzionale parla di gerarchia mobile. Principio questo da intendersi, non come rigida e fissa subordinazione di uno degli interessi all’altro, ma come concreta individuazione da parte del Giudice dell’interesse da privilegiare tra quelli antagonistici a seguito di una ponderata valutazione della specifica situazione sostanziale dedotta in giudizio con conseguente bilanciamento tra gli stessi, capace di evitare che la piena tutela di un interesse possa tradursi nella limitazione di quello contrapposto tanto da vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Non si è mancato di osservare in dottrina, proprio in una materia attinente al diritto di riservatezza, che l’operazione di bilanciamento può condurre ad un arretramento di tutela dei dati personali tutte le volte in cui nel conflitto di interessi il grado di lesione della dignità dell’interessato sia di ridotta portata rispetto a quella che subirebbe il diritto antagonista, non potendo consentirsi all’interessato di trincerarsi dietro l’astratta qualificazione del suo diritto sì da limitare in maniera rilevante il diritto di difesa della controparte. La condivisione da parte di questa Corte di tale assunto induce ad affermare che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto alla privacy, cui il legislatore assicura in sede giudiziaria idonei strumenti di garanzia, non può dunque legittimare, nei casi come quello in esame, una violazione del disposto di cui all’art. 24 Cost. che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, non può incontrare nel suo esercizio ostacoli all’accertamento della verità materiale a fronte di addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla persona dell’incolpato ed alla sua onorabilità o, come nel caso in esame, anche alla perdita del diritto al posto di lavoro. Ragioni di completezza motivazionale inducono a evidenziare, con riferimento a fattispecie aventi ad oggetto il diritto alla riservatezza, come nella giurisprudenza di legittimità si riscontri ripetutamente l’affermazione che il giudice di merito debba effettuare in caso di contrapposizione di diritti una comparazione tra gli stessi al fine di trovare un giusto equilibrio tra le posizioni delle parti in lite (Cass., 30 giugno 2009, n. 15327, secondo cui la riservatezza dei dati personali debba recedere qualora il relativo trattamento sia esercitato per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante e nei limiti in cui sia necessario per la tutela dello stesso e sempre per la necessità di una valutazione comparativa tra il diritto protetto dalla suddetta normativa ed il rango del diritto azionato)”.

Ritengo, quindi, dalle considerazione appena esposte, che l’art. 3 del nuovo D.Lgs. in definizione sia incostituzionale perché degrada il diritto di difesa a mero vizio sanabile con il pagamento di un’indennità mentre sovrasta esclusivamente l’insussistenza del fatto. Secondo il mio parere i vizi procedurali che attengono i termini perentori, l’accesso della documentazione e il pieno diritto di difesa, dovrebbero essere tutelati realmente con la reintegrazione in servizio e non con il baratto. Non si tratta di svendere l’opportunità dei lavoratori ma di umiliare profondamente la persona facendole perdere, volendo, il posto di lavoro in spregio alle tutele previste dalle normative specifiche, come quella disciplinare, fondate in più punti su diritti costituzionali.

Licenziamento oggettivo e per inidoneità psicofisica

  • La legge 12.03.1999 n. 68, disciplina l’idoneità psicofisica del lavoratore. L’art. 18 tutela il licenziamento operato sui lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia anche cagionata per inadempimento datoriale dimostrata in sentenza per violazione del D.Lgs. n. 81/2008 ed altre norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro (colpa per negligenza e imprudenza) che abbia ridotto la capacità lavorativa inferiore al 60%.

In questo caso prima di adottare la soluzione del licenziamento deve essere tentato il repechage.

Solo quando la Commissione medica di verifica accerti l’inidoneità a proficuo lavoro, la tutela dell’art. 18 cessa di operare. Quando il giudice accerta che il lavoratore licenziato non rientra assolutamente tra le tipologie sopra indicate o che la lavoratrice è stata licenziata durante la gravidanza o il puerperio (art. 2110 C.C.), annulla il licenziamento reintegrando il lavoratore e commina un’indennità mensile per il periodo di disoccupazione, al massimo di 12 mensilità oltre ai contributi. Riguardo gli altri motivi oggettivi, il comma 7 dell’art. 18 ci riporta alla insussistenza del fatto (V. il comma 4) come ratio per la tutela reale ed obbligatoria già considerata. Negli altri casi in cui accerta che non ricorrono gli estremi per addebitare un motivo oggettivo, conferma il licenziamento e commina un’indennità da 12 a 24 mensilità. Questa tutela, così come è stata modificata dalla riforma Fornero, è peggiorativa rispetto a quella precedentemente regolata dall’art. 8 della legge 15.07.1966 n. 604, novellato dall’art. 2, co. 2 della legge 11.05.1990 n. 108. La norma prevedeva che in ogni caso in cui non ricorressero gli estremi del licenziamento (e, quindi, non solo in caso di insussistenza del fatto contestato o dedotto dal datore), operasse la reintegra entro 3 giorni o, alternativamente, il risarcimento del danno attraverso un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità retributive. L’indennità era di 10 mensilità se il lavoratore aveva un’anzianità di servizio superiore a 10 anni e di 14 mensilità se il lavoratore aveva oltre 20 anni di anzianità solo però se l’azienda impiegava almeno 16 lavoratori.

  • La riforma Renziana è identica a quanto previsto dall’art. 18. Quindi per i lavoratori parzialmente inabili, nulla è cambiato. Però i licenziati per motivi oggettivi non potranno procedere al ricollocamento previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966.

Licenziamento in genere con vizi procedurali

  • L’art. 18 permette di dichiarare inefficace ogni licenziamento che non è stato fondato sulla legalità.

  • Per legalità si intende il rispetto della parte datoriale delle prescrizioni di legge che hanno contenuto precettivo. Non specificare i motivi sottesi il licenziamento entro 7 giorni dalla richiesta intimata dal lavoratore, trasmettere una contestazione di addebito oltre i termini previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sorvegliare con le telecamere il lavoro, audire il lavoratore prima di comminargli la sanzione, allontanare dall’audizione il procuratore del lavoratore o, ancor peggio, non informare il lavoratore dei propri diritti di difesa incorporando nella contestazione quanto prescritto dallo Statuto o dalla contrattazione, costituiscono, soprattutto per i giuristi amanti del diritto, una sopraffazione del potere legislativo che poco ha a che fare con i principi costituzionali. Spero che la Corte Costituzionale intervenga per limare alcune regole che, di fatto, pongono il lavoratore ostaggio del potere e del conformismo aziendale che non sempre aiuta lo sviluppo della libera personalità del lavoratore o aiuta a costruire un ambiente sereno.

  • Il nuovo D.Lgs. disporrà che, nel caso in cui il datore ometta di specificare i motivi richiesti dal lavoratore per sapere perché è stato licenziato (art. 2, co. 2, L. n. 604/1966), ovvero qualora la procedura disciplinare il datore violi tutte le prescrizioni obbligatorie dettate dalle fasi progressive per definire i termini, i doveri del datore e i diritti del lavoratore (art. 7 St. Lav.), il giudice confermi comunque il licenziamento accontentando il lavoratore deluso dal disprezzo dello Statuto dei Lavoratori con un’indennità pari ad una retribuzione per ogni anno di lavoro prestato ma non superiore a 12 mensilità.

  • Attenzione però: è possibile la reintegra e la tutela obbligatoria piena (una retribuzione per tutto il periodo di disoccupazione senza limite) se nel ricorso il lavoratore si ricorda di contestare specificamente la sussistenza del fatto contestato, isolandolo dal contesto per meglio confutarlo. Diversamente il giudice confermerà comunque il licenziamento. Questa regola apre una polemica infinita sulla responsabilità professionale degli avvocati che qui non intendo affrontare. Però se il lavoratore dovesse perdere il posto di lavoro per insufficienza o inconferenza del ricorso, gli effetti potranno essere devastanti. La norma, comunque, è insidiosa. Si dovrebbe permettere al giudice di esaminare a 360° gli elementi costitutivi del licenziamento, impedendo che alla verità sui fatti e al principio costituzionale di giustizia, si anteponga una semplice tecnica difensiva o ancor peggio, una dimenticanza. La riforma tutela ancora i lavoratori licenziati collettivamente (legge 23.07.1991 n. 223) reintegrandoli in caso di talune violazioni procedurali (art. 4, co. 12 e art. 5, co. 1). Per ultimo l’art. 12 ricorda che non è possibile applicare l’art. 18 ai licenziati sotto queste nuove disposizioni.

In conclusione le nuove disposizioni sul licenziamento serviranno ad affossare ancora di più il sindacato che, privato di ogni effettiva capacità d’azione, dovrà ancor più avvicinarsi al datore di lavoro, in un connubio di interessi e accordi finalizzati a non scomparire.

Stupisce come si tolleri la violazione delle legge ad opera del datore di lavoro e si punisca questo affronto con una semplice indennità, come per dire: “fai quello che vuoi, fregatene della legge basta che hai i soldi”.

I licenziati, seppur illegittimamente ma non per insussistenza del fatto o per discriminazione, diventeranno disoccupati, ma Renzi non li abbandonerà visto che l’art. 11 stabilisce che il nuovo Fondo per le politiche attive per la ricollocazione (presso l’INPS) regalerà un voucher che i disoccupati potranno utilizzare un’agenzia per il lavoro così da ottenere la ricerca gratuita di una nuova occupazione, un nuovo addestramento, formazione e riqualificazione; un po’ fantasioso visto l’indice di disoccupazione.

L’unico spiraglio di tutela sembra essere offerto dagli avvocati che dovranno impegnarsi per ricercare cavilli e spunti per applicare la tutela reale ai più disparati casi di licenziamento, più o meno tipici, che la fantasia italiana ha spesso dimostrato di saper creare.

E mentre i sindacati si affanneranno per accattivarsi il datore di lavoro con la speranza di acquietarlo per i casi disciplinari più gravi, il datore farà il vero padrone, deciderà chi colpire e chi tollerare nella più ampia discrezionalità che un paese cosiddetto democratico possa permettere.

Infatti l’art. 5 del nuovo D.Lgs. prevede che il datore, senza motivo, revochi il licenziamento e ripristini il rapporto interrotto. Una specie di miracolo che solo il padrone può decidere di fare o non fare a chi desidera; ma se non vuole alzare il polverone sul licenziamento poco pulito, può offrire al lavoratore al massimo 18 mensilità come buonuscita.

Analisi del Prof. Mauro Di Fresco

(05/01/2015 - Prof. Mauro Di Fresco)
   

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