Obbligo di concorso nell'amministrazione pubbblica.
L'OBBLIGO DI CONCORSO PER LE ASSUNZIONI A TEMPO INDETERMINATO
NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E' REGOLA DI ORDINE PUBBLICO
La legge straniera non può derogarvi (Cassazione Sezione Lavoro n. 10070 del 26 aprile 2013, Pres. Roselli, Rel. Curzio).
Maria Estela G. e Adriana B., cittadine argentine, hanno lavorato alle dipendenze del Consolato d'Italia a Buenos Aires come impiegate in base a un contratto di lavoro a tempo determinato di sei mesi, rinnovato per due ulteriori semestri. Esse hanno chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare l'illegittimità delle clausole di scadenza apposte ai contratti per carenza dei requisiti previsti dalla legge argentina e l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale ha affermato la giurisdizione del giudice italiano, ma ha rigettato le domande in quanto ha ritenuto inapplicabile la legge argentina. Questa decisione è stata confermata, in grado d'appello, dalla Corte di Roma, che ha ritenuto contrario all'ordine pubblico nazionale l'art. 90 della legge argentina n. 20744 che prevede, in casi di ingiustificato rinnovo, la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato anche nel caso di rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione. Le lavoratrici hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10070 del 26 aprile 2013, Pres. Roselli, Rel. Curzio) ha rigettato il ricorso. In base alla legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (legge 218 del 1995, art. 16) - ha ricordato la Corte - "la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico", con riferimento specifico alle obbligazioni contrattuali, nel cui ambito si colloca la materia in esame, l'art. 57 della medesima legge sancisce che "sono regolate dalla convenzione di Roma 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva con la legge 18 dicembre 1984, n. 975". Tramite tale articolo della legge 218 del 1995 la convenzione di Roma viene estesa "erga omnes" e quindi anche ai rapporti con l'ordinamento giuridico dello Stato argentino.
Il concetto fondamentale - ha affermato la Corte - è che l'applicazione di una legge straniera nell'ordinamento italiano, derivante dalle regole di diritto internazionale privato, viene inibita se determina effetti contrari all'ordine pubblico; si articola così un meccanismo di salvaguardia (presente nella maggior parte dei sistemi di diritto internazionale privato) che filtra l'ingresso di disposizioni provenienti da altri ordinamenti bloccando l'operatività delle norme straniere quando siano in contrasto con l'ordine pubblico; per ordine pubblico, a tale specifico fine, si intendono i principi essenziali della "lex fori", che possono desumersi da disposizioni di rango costituzionale, ma anche da leggi ordinarie o dall'esame complessivo dell'ordinamento.
Nel caso in esame - ha osservato la Corte - l'effetto che si determinerebbe se venisse applicata la legge argentina (qualora si accertasse la fondatezza di quanto sostenuto dalle ricorrenti) sarebbe quello della conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato tra le lavoratrici e il Ministero degli Esteri in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Si avrebbe quindi l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con lo Stato italiano, non mediante la partecipazione con esito positivo delle lavoratrici ad un concorso pubblico finalizzato a tale assunzione, ma in forza di un provvedimento giudiziario di accertamento della violazione (da verificare) di alcune regole della legge argentina sul contratto di lavoro a termine. Il principio per cui l'accesso all'impiego pubblico deve avvenire mediante concorso - ha osservato la Corte - è un principio fondamentale dell'ordinamento italiano. Risale ad alcuni provvedimenti legislativi dell'inizio del secolo scorso (r.d. 22 novembre 1908, n. 683; r.d. 11 novembre 1923, n. 2395) ed era già presente negli stati pre-unitari. Il Costituente lo elevò a rango costituzionale con l'art. 97, terzo comma, Cost. che così recita: "Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge". Nel nostro assetto costituzionale il principio che regola l'accesso all'impiego pubblico è pertanto quello del concorso.
Per i cittadini che aspirano ad accedere al lavoro nelle amministrazioni pubbliche, il concorso è il metodo che dà maggiore garanzie di rispetto del principio di uguaglianza. In questo senso l'art. 97 si coordina non solo con l'art. 3, primo e secondo comma, Cost., ma anche con l'art. 51 della Costituzione, per il quale "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ...".
Questa ricostruzione del fondamento costituzionale del principio e delle finalità che lo ispirano - ha ricordato la Cassazione - è stata costantemente ribadita dai giudici costituzionali. Corte cost. 25 aprile 2006, n. 363, ha affermato: "Il concorso pubblico - quale meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito - costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni. Esso è posto a presidio delle esigenze di imparzialità e di efficienza dell'azione amministrativa. Le eccezioni a tale regola consentite dall'art. 97 Cost., purché disposte con legge, debbono rispondere a "peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico". Altrimenti la deroga si risolverebbe in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone. Perché sia assicurata la generalità della regola del concorso pubblico disposta dall'art. 97 Cost., l'area delle eccezioni va, pertanto, delimitata in modo rigoroso". Il principio costituzionale è stato richiamato e ribadito nei più importanti interventi legislativi successivi alla Costituzione, quali, il testo unico sugli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 3), la legge 11 luglio 1980. n. 312, la legge quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93, art. 20). Il "Testo unico del pubblico impiego" (decreto legislativo n. 165 del 2001) ancora il reclutamento del personale a "procedure selettive" volte "all'accertamento delle professionalità richiesta" (art. 35), fissando le regole base dei meccanismi concorsuali. Per converso, il successivo art. 36, nel consentire il ricorso a forme contrattuali flessibili di assunzione mediante generiche "procedure di reclutamento vigenti", precisa che "in ogni caso la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni". La tutela del lavoratore - ha affermato la Corte - dovrà invece avvenire mediante il "risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative"; il che è un modo per tutelare il lavoratore senza intaccare le finalità perseguite con la regola del concorso; l'impossibilità ("non può") di costituire un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è volta a tutelare le amministrazioni pubbliche sul piano finanziario (la tutela risarcitoria, in conformità alla giurisprudenza europea, dovrà essere incisiva, anche perché, contrariamente a quanto avviene nel settore privato, essa non costituisce un mero completamento della tutela prioritaria di natura reintegratoria). Ciò che si tutela mediante lo strumento del concorso pubblico sono invece i valori costituzionali della imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione, nonché il diritto di "tutti" i cittadini ad accedere al lavoro pubblico, partecipando a selezioni basate sul merito.