La quarta guerra
Ultimo aggiornamento Lunedì 02 Settembre 2024 08:28
Scritto da Sandro
Lunedì 02 Settembre 2024 08:26
La quarta guerra
di Enrico Tomaselli
Ormai trascorso anche il decimo mese di guerra, il conflitto a Gaza – la guerra più lunga mai sostenuta da Israele – si rivela sempre più come un insanabile fattore di stress per la società israeliana. Le criticità che stanno emergendo sempre più, mostrando le crepe che si aprono nella società, sono però figlie dirette del fallimento militare – e questo è un elemento deflagrante per Israele.
Sin da prima del 1948, il movimento sionista ha immaginato lo stato ebraico come uno stato guerriero, eternamente in conflitto con i suoi vicini, e la cui sopravvivenza era ineluttabilmente legata alla capacità di esercitare un sovrastante potere militare. Una deterrenza che richiedeva, tra l’altro, il ricorrente esercizio attivo della forza, sia per ribadire il potere deterrente, sia per mantenere costantemente i paesi arabi in una condizione di soggezione sia psicologica che militare.
Per fare ciò, i governi israeliani hanno sempre adottato il classico schema occidentale, ovvero la supremazia tecnologica combinata con una strategia aggressiva, basata sull’annichilimento del nemico in tempi estremamente brevi. Le tre guerre precedenti, sostenute da Israele, sono state rapide e ad alta intensità. Questo modello, vincente, ha quindi uniformato non solo le forze armate, ma l’intera società – che, appunto in quanto società guerriera, è costantemente armi al piede.
Il rapporto tra forze armate e società è estremamente molto più stretto che non altrove, e segnatamente che nelle società occidentali; non solo per via di una leva lunga e ambisessi, o per il frequente richiamo in servizio dei riservisti, ma per la rilevanza che la carriera militare assume spesso in quella politica.
Questo modello, fondativo sotto ogni profilo, è entrato in crisi il 7 ottobre 2023, ed è poi via via andato sgretolandosi, sino a mettere in crisi esistenziale lo stesso stato ebraico.
Qualche giorno fa, il Generale di Brigata Yitzhak Brik ha scritto su Haaretz [1] che, se la guerra a Gaza e al nord continua, nel giro di un anno Israele crollerà.
Se, infatti, l’operazione Al Aqsa Flood ha messo in crisi le capacità di controllo e reazione dell’IDF, lo sviluppo del conflitto a Gaza ha messo a nudo l’incapacità delle forze armate israeliane di venire a capo di una guerra in cui il modello rapidità + intensità non è applicabile.
Prevedibilmente, l’unico risultato dell’applicazione di quel modello è stato produrre un genocidio della popolazione civile, nonché una distruzione pressoché totale delle infrastrutture, che però si è rivelata quasi irrilevante ai fini del confronto militare. La capacità di combattimento delle formazioni della Resistenza, infatti, è ancora considerevolmente alta, tanto che l’intensità dei combattimenti nella Striscia non accenna a diminuire.
A essere problematico, per Israele, persino più delle perdite umane (ufficialmente più di 700 caduti, in realtà probabilmente tra 2 e 3.000, più almeno 10.000 feriti), e a quelle dei mezzi militari, comincia a essere l’impatto economico della guerra, e il consumo di munizionamento. Senza l’enorme supporto statunitense, il bombardamento pressoché quotidiano, e protratto per oltre 300 giorni, sarebbe stato semplicemente impossibile [2], ma è chiaro che questo flusso di bombe e proiettili d’artiglieria non può continuare indefinitamente, e Israele si troverà presto ad affrontare una carenza di munizioni come già accaduto all’Ucraina.
Anche questo, infatti, è uno degli aspetti critici di una guerra di lunga durata; soprattutto quando il blocco dei paesi alleati e/o amici ha largamente impegnato le proprie risorse per sostenere due anni e mezzo di conflitto in Europa.
La leadership israeliana, quindi, si trova di fronte a un bivio, ma contemporaneamente non può imboccare nessuna delle due strade. Da un lato, c’è un costante accumulo di problemi (economici, sociali, internazionali, militari…) che spingono verso una conclusione del conflitto, sempre più insostenibile sotto ogni aspetto, mentre dall’altro la prospettiva di una regionalizzazione del conflitto (coinvolgendo Libano, Iran e Stati Uniti) appare sempre più difficile – sia per la forte riluttanza di questi attori nel farsi coinvolgere, sia per l’incapacità israeliana di reggere quel livello di scontro senza l’appoggio totale degli USA.
Al momento, quindi, essendosi ormai fatta strada la consapevolezza che non è possibile sconfiggere militarmente la Resistenza palestinese, la leadership israeliana sembra orientarsi – per quanto riguarda il conflitto a Gaza – verso una soluzione di controllo prolungato.
Sostanzialmente, questo dovrebbe essere esercitato mantenendo una presenza militare di lungo periodo nella Striscia, e significativamente lungo due assi principali: il corridoio Philadelphia, lungo il confine con l’Egitto, e il corridoio Netzarim, che divide longitudinalmente in due la Striscia. A questo fine, l’IDF sta procedendo alla distruzione sistematica di ogni edificio lungo questi due assi, con una ampia profondità, per poi insediarvi dei presidi fortificati. Una fascia di sicurezza simile, priva di costruzioni, si presume venga progettata lungo l’intero confine dell’enclave.
Ma, a parte le non poche difficoltà connesse a un progetto simile, per via delle innumerevoli questioni aperte, e che andrebbero risolte preventivamente (questione dei prigionieri, questione della governance della Striscia, questione della ricostruzione, questione del controllo sul confine egiziano…), è abbastanza evidente che si tratta di un progetto che, quand’anche fosse possibile attuarlo, ricreerebbe sostanzialmente le condizioni pre 7 ottobre.
La Resistenza, cioè, avrebbe presto agio di riorganizzare le proprie fila, e ripartire con gli attacchi contro la presenza militare israeliana. Il corridoio Netzarim, per dire, già oggi è soprannominato il corridoio della morte… Una presenza diretta dell’IDF nella Striscia, in ogni caso, non ripristinerebbe in alcun modo l’ormai perduta deterrenza di Tsahal.
In buona sostanza, senza una sconfitta chiara ed evidente della Resistenza (che è un obiettivo non conseguibile), non esiste alcuna soluzione praticabile al problema. Per dirla con le parole del Generale Brik, “Israele sta sprofondando sempre di più nel fango di Gaza, perdendo sempre più soldati che vengono uccisi o feriti, senza alcuna possibilità di raggiungere l’obiettivo principale della guerra: abbattere Hamas. Il paese sta davvero galoppando verso l’orlo di un abisso” [3].
Ma, ovviamente, per quanto per molti versi abbia una sua rilevante centralità, il fronte di Gaza non è l’unico, e sotto certi punti di vista nemmeno il più importante. La Striscia, infatti, seppure venga percepita come una spina nel fianco, è tutto sommato una sorta di corpo estraneo, che basta tenere accuratamente isolato – appunto ripristinando, in maniera ancora più stringente, la condizione precedente di enorme carcere a cielo aperto.
Ma il vero ventre molle di Israele è sempre stato la Cisgiordania. Sia perché è qui che si concentrano la gran parte degli insediamenti coloniali, sia perché la fertile valle del Giordano è il territorio che Israele più ambisce a inglobare, espellendone i palestinesi.
E in effetti oggi il fronte della West Bank si presenta assai problematico, per Tel Aviv.
Innanzi tutto, il sistema di dominio coloniale sull’area si è strutturato fondamentalmente su due pilastri: la leopardizzazione delle enclavi palestinesi, e l’insediamento su queste di un governo fantoccio, quello dell’ANP, totalmente in mano a Israele e agli USA, e la cui funzione principale è stata storicamente quella di controllo del territorio per conto di Tel Aviv.
La politica degli insediamenti coloniali sionisti in Cisgiordania ha puntato a frammentare la presenza arabo-palestinese, spezzandone la continuità territoriale; una miriade di città e villaggi abitati da coloni, collegati da una fitta rete stradale interdetta ai palestinesi, ha portato a una presenza araba a macchia di leopardo, con una serie di centri abitati senza reciproca contiguità.
Su questo territorio frammentato, sul quale peraltro Israele mantiene di fatto il pieno controllo, l’amministrazione dell’ANP si è preoccupata principalmente di garantire l’ordine, svolgendo il ruolo di vera e propria polizia coloniale. Gli ascari delle forze di sicurezza, anzi, non solo collaborano apertamente con la polizia e l’esercito israeliano, ma sono spesso persino più violenti di questi, nella repressione della Resistenza.
Per ragioni diverse, però, questi due pilastri sono sostanzialmente venuti meno, se non altro nelle loro funzioni principali.
Per quanto riguarda l’ANP, la crescita politica e militare della Resistenza, successivamente al 7 ottobre, che ha in parte coinvolto anche Fatah (il movimento che gestisce l’ANP), e più di recente gli accordi di Pechino tra le varie organizzazioni palestinesi – Fatah compresa – ne hanno indebolito considerevolmente la presa sui territori.
Per quanto riguarda invece la frammentazione territoriale, dal momento in cui la Resistenza è passata anche in Cisgiordania dai riots alla lotta armata, si è rivelata un problema militare. L’IDF, infatti, non ha un’area precisa e delimitata da investire e/o isolare, ma una molteplicità di enclave di varia dimensione. Non c’è, insomma, una linea del fronte, ma una infinità di fronti.
Oltretutto, le organizzazioni combattenti della Resistenza si sono rivelate estremamente efficaci nel contrastare i raid dell’IDF, che ogni volta contano morti e feriti, oltre che mezzi distrutti e danneggiati. Per quanto anche la West Bank stia pagando un prezzo pesante (migliaia di palestinesi in detenzione amministrativa dall’inizio del conflitto a Gaza), è significativo come stiano passando gradualmente da un’attività difensiva a una offensiva. Si segnalano, infatti, già vari attacchi armati agli insediamenti coloniali israeliani, con l’evidente intento di spingere i settler ad abbandonarli.
Ancora degno di nota come il terzo fronte, quello libanese, si rifletta anche in modi imprevisti sull’intero conflitto. È abbastanza evidente che la capacità di deterrenza di Hezbollah è estremamente elevata, sia in termini di intelligence e precisione d’attacco, sia in termini di capacità di fuoco. Ovviamente, non è solo una questione di costante pressione militare lungo il confine, che costringe l’IDF a tenervi impegnate una certa quantità di forze, né dello stillicidio di perdite – in termini di personale, di mezzi e di infrastrutture militari.
Il semplice esercizio di una attività militare di calibrata intensità, significa innanzitutto la necessità, per l’esercito israeliano, di mantenere mobilitati una certa quantità di riservisti (tutta forza lavoro lungamente sottratta all’economia), ed ha determinato l’evacuazione di un’ampia fascia di territorio; per una profondità di circa 20/30 chilometri, quasi tutti i residenti ebraici sono stati spostati altrove. In pratica, l’IDF ha creato una fascia di sicurezza, ma non respingendo Hezbollah sino al fiume Litani (come vorrebbero), ma arretrando in territorio israeliano.
Altrettanto significativamente, questa evacuazione di massa della popolazione ebraica dal nord dei territori occupati, che ha lasciato la regione con solo la popolazione araba (a parte ovviamente gli insediamenti militari), ha aperto la strada al contrabbando d’armi da Libano e Siria verso la Cisgiordania. Basta guardare i filmati diffusi dalla Resistenza, per vedere come i combattenti di Gaza sia armati di AK-47, mentre quelli della West Bank usano gli M-16 statunitensi e altre armi moderne.
Questo spopolamento, inoltre, apre potenzialmente anche a tentativi di riconquista del territorio occupato, sia per quanto riguarda il settore delle fattorie Sheeba (Libano) che per quello delle alture del Golan (Siria). In caso di una effettiva generalizzazione del conflitto, infatti, la tentazione di riprenderseli potrebbe anche affacciarsi.
In termini più generali, e sempre relativamente agli aspetti militari, è impossibile non rilevare che, se da un lato la deterrenza israeliana è pressoché azzerata, al contrario Hezbollah ha visto crescere significativamente la propria. Vale appena la pena di sottolineare che stiamo parlando di un soggetto non statale e di uno stato, considerato fino a poco tempo fa come dotato di uno dei migliori eserciti del mondo. Anche al netto dell’abile propaganda che ne ha costruito il mito (che a sua volta è parte della deterrenza), è evidente che l’evoluzione dei rapporti di forza regionali è stata tale, e talmente veloce, da rovesciarli in breve tempo.
Esemplare, sotto questo punto di vista, l’operazione Day of Arbaeen – rappresaglia libanese per l’uccisione di Fouad Shukr – e la presunta contromossa preventiva israeliana, sono estremamente esemplificative.
Secondo quanto sostenuto dall’IDF, i servizi israeliani sarebbero venuti a conoscenza dell’imminenza di un attacco da parte di Hezbollah, e avrebbero quindi a loro volta messo in essere un attacco preventivo, con l’obiettivo di distruggere i sistemi di lancio dei missili al di là del confine libanese. Con questa operazione, secondo quanto sostenuto da Israele, “migliaia di lanciarazzi di Hezbollah sono stati colpiti simultaneamente da circa 100 jet da combattimento dell’IAF” [4]. Un’operazione che, sempre secondo fonti israeliane, avrebbe impiegato 4.000 bombe Joint Direct Attack Munition (JDAM). Ciò, aggiunto a 100 velivoli operativi per sei ore per un costo totale di circa 18 milioni di dollari e operazioni con droni per 12 ore stimate in 1,08 milioni di dollari, porta la spesa totale a quasi 120 milioni di dollari, esclusi i costi di compensazione del servizio di riserva [5].
Nel giro di 24 ore, Hezbollah ha lanciato il suo attacco, saturando le difese israeliane con centinaia di razzi, per poi colpire con i droni undici obiettivi militari. Israele ha incassato il colpo.
Esattamente come già avvenuto per la rappresaglia iraniana al bombardamento dell’edificio consolare a Damasco, anche la Resistenza libanese è stata in grado di colpire i suoi bersagli, nonostante Tel Aviv ne avesse avuto sentore in anticipo, e senza fare ricorso alle proprie migliori risorse belliche.
Quindi, la deterrenza israeliana non funziona più – tutti gli attori regionali che fanno capo all’Asse della Resistenza non si fanno scrupolo di attaccare il territorio israeliano – mentre quella della Resistenza si – Israele si guarda bene dal rispondere alle rappresaglie.
In questo quadro, appare evidente che l’attuale quarta guerra di Israele potrebbe essere l’ultima. Non è più questione, infatti, di un eventuale mutamento politico ai vertici dello stato ebraico, né tanto meno di una qualche variazione strategica. È il radicale mutamento degli equilibri di forza, nella regione e nel mondo, che rende estremamente precaria la posizione di Tel Aviv. E questa quarta guerra non può essere vinta, ma nemmeno può essere persa.
Note
1 – “Israel Will Collapse Within a Year if the War of Attrition Against Hamas and Hezbollah Continues”, Gen. Yitzhak Brik, Haaretz
2 – Gli Stati Uniti hanno completato 500 consegne aeree di armi a Israele da ottobre, per un totale di oltre 50.000 tonnellate di equipaggiamento militare. Inoltre, l’amministrazione Biden ha inviato 107 spedizioni di forniture militari a Israele via mare.
3 – Gen. Yitzhak Brik, ibidem
4 – “Israel hits Hezbollah targets in pre-emptive strike”, Globes